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<< convennero meco esser queste lettere Messa<< piche »..

Il Trattato del Galateo composto intorno al 1510 rimase un mezzo secolo manuscritto, prima che fosse per la prima volta nel 1558 fatto stam. pare a Basilea da uno dei più arditi e liberi pensatori di questa provincia, il quale, infelice e perseguitato, correva esule oltre monte fuor della patria, intendiamo il Marchese di Oria Bernardino Bonifacio. Avvenne però, che siccome forse i copisti avevano alterata quella iscrizione, così proseguirono in seguito coloro che man mano la andavano ristampando. Lo stesso Lepsius e lo stesso Grutero ce la tramandarono l'un con tredici, e l'altro con otto righe. Poscia fu peggio deturpata da quelli, ch'ebbero la presunzione d' interpetrarla, i quali fino le lettere osarono trasmutare, ed in tale maniera che mai più si scontrarono nelle lapidi nuovamente venute fuori.

Uno di costoro fu Ludovico Baurghet professore a Neufchatel, del quale, per dare un saggio del come i padri nostri usavano trattare le lingue morte, intendiamo offerire la traduzione che ne fece nel 1735. Eccola: Claustrum animaliumque custodia melliflua fonte decoratum late effosso in Avoran in Tarantoo ex quo neglectae boves (i.e.) vaccae fluxione tabefactae deformem (s. c. prolem) peperunt perforatus tumoribus obscuris bo

ves (i. e.) vaccas infunderunt in aquam fructus melleam in custodia rustica destillationibus infestatis istiusmodi aliquoties dato immissoque medicamento ordinatim mundatae sunt irrigationi ductae effusaeque et immissae pecudes.

Nel riprodurla però il Mommsen, guidato da una sana critica, volle attenersi all'esemplare del Pighio, credendolo regolarissimo almeno per la forma dei caratteri, per quanto lo mostrano tutte le iscrizioni Messapiche scoperte più tardi. Solo può dare sospetto, secondo lui, quell'Opix MaρtaTidoy aσтeißαoтa, ossia Oria e Basta, nome l'una della principale città de' Messapi, e l'altra del luogo dove la pietra fu rinvenuta, entrambe potute essere introdotte da taluno eccitato da troppo amore del luogo natio. Però se attentamente osserviamo la parola Basta vien ripetuta una seconda volta nella terza linea, laddove per corruzione forse si legge datas, sicchè siam di avviso che quella prima linea non ci giunse per nulla tocca, tanto più che oltre delle due città nella lapide stessa pare sieno ricordate del pari Taranto, Bauboa, o Baubota secondo la tavola Pleutingeriana, forse l'odierna Parabita.

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Sta scritta sull'orlo d'una parte di vasca spezzata a metà, o fonte lustrale, di pietra leccese (calcarea-tenera), per la qual cosa la stessa leggenda è pur mutilata. Fu per caso rinvenuta a' Muro-leccese nel 1859 da un contadino. Il Maggiulli che la osservò fece proseguire gli scavi intorno al luogo donde era uscita. Ed ecco scontrate le fondamenta d'un tempietto circolare, dentro di cui al fondo stava l'ara, sulla quale rovesciate una statuetta di bronzo priva della testa, e una colonnetta di mattone, forse servitale di base. Di fianco i frammenti di due vasi, dell'uno dei quali faremo menzione più tardi, e dell'altro diciamo, che un coccio del suo labro della parte interna serba alcune lettere graffite, e quali si scorgono al N. 3 delle tavole. All' ingresso esterno del tempietto poi fu scoperchiata una tomba con delle ossa umane dentro, sul teschio delle quali posava una moneta d'argento di Taranto, ed ai piedi una di Terina.

Copia esattissima della iscrizione della fonte fu tosto spedita dal Maggiulli all'Istituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, e con essa

una sua relazione della quale, perchè inedita, ci piace riportarne un sunto.

Il monoteismo, dice egli, secondo che appare da Strabone là dove riferisce la risposta dell'Oracolo di Delfo data a Falanto, prima che qui si recasse, o la vera religione si seguiva nella Messapia, la quale bentosto poscia fu trasmutata in politeismo (Strab. lib. VI) και πημα Γ' άπυγεσσι γενεσ θαι. a. E fu così, che in questa regione s'introdus. sero i culti delle diverse divinità allora in voga, come Diana ed Ercole a Taranto, Minerva all'estremo di Giapigia, e se si volesse credere alle congetture, Giove, Marte e le Ninfe altrove.

Il piccolo tempio di Muro certamente era a Venere dedicato. Di fatti questa statuetta di bronzo priva della testa, sebbene a prima giunta mostrasse di rappresentare un uomo, pur non è che il simulacro d'una Venere.

Alta centimetri 13, sebben rozzamente lavorata, pur non ostante non manca di proporzione, e tolta l'eleganza bella e squisita delle pieghe dell'Aristide del museo di Napoli, se qualcuno voglia aver idea del suo atteggiamento, di questo si ricordi. Lo stesso pallio tutta l'avvolge, che lungo e gettato sopra l'omero sinistro pende ad angolo dietro la schiena; lo stesso braccio sinistro volto sui reni, e il destro alzato e tenuto ritto sul petto, formando angolo nel gomito, e colla mano tirando

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avanti il drappo; sicchè ivi scovrendo alcun poco il nudo sotto la gola viene a disegnarsi la forma d'una Vlarga ed inclinata. Però diverso dell'Aristide il nostro bronzo mostra con molte pieghe discesa sui piedi la castola, specie di veste portata dalle donne sulla carne, ed attaccata giù dalle mammelle.

Che sia muliebre più tosto che virile la nostra figurina lo addimostra ancora il petto protuberante, e caratteristicamente rotondo, e per non trarre in equivoco l'artefice vi tracciò più profondo e più esteso che non dovesse sulla poppa il segno della papilla. Nell'insieme insomma rassomiglia agl'idoletti figulini discoperti non ha molti anni nella Sardegna, e che ora ritrovansi nei musei di Cagliari e di Torino, e che il Bresciani con altri archeologi assicurano ravvisarvi l'Astarte Sidonia, ossia l'Afrodite dei greci, o la Venere dei latini.

Non è nuova l'apparente anomalia della nostra statuetta nel misticismo della pagana teologia. Presso gli Egizii ed i Greci, ed anche presso i Romani nella Venere talvolta si scorgevano gl'indizi del doppio sesso, e a Cipro la sua statua aveva colle vesti muliebri, lunga barba nel mento e scettro nelle mani.

Era credenza presso i popoli più primitivi, che la Venere della quale c'intratteniamo fosse uomo

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